Pubblicato da: alarossa | 13 Maggio 2009

Carbone e parchi naturali

Intere pagine dei quotidiani locali di giovedì 30 aprile, erano occupate dalla notizia del giorno: la commissione VIA del Ministero dell’Ambiente ha espresso parere favorevole alla conversione a carbone della centrale ENEL di Porto Tolle (RO). La conversione porterà la centrale, finora funzionante ad olio combustibile su quattro gruppi, a funzionare a carbone su tre gruppi, con lo sviluppo di una potenza complessiva inferiore (da 2640 MW a 1980 MW) e con una drastica riduzione dell’impatto ambientale dell’impianto, che sarà conseguita attraverso una riduzione delle emissioni inquinanti.
La stampa riporta dati sorprendenti, relativamente alla prevista riduzione degli inquinanti in uscita dalla centrale, dopo riconversione: emissioni abbattute dell’88% rispetto alle attuali, grazie alla installazione di denitrificatori, desolforatori e filtri a maniche, con quantitativi di inquinanti emessi inferiori del 50% ai valori previsti dalla normativa europea.
Notevoli anche i dati relativi agli investimenti ed alle ricadute occupazionali ed economiche: 2,2, miliardi di euro di investimenti, 3500 persone impegnate nei 5 anni di lavori previsti, riduzione della dipendenza dell’Italia dal gas naturale.
I dati riportati sulla stampa non possono che impressionare favorevolmente, e tuttavia una domanda sorge spontanea: ma una centrale termoelettrica, per quanto migliorata nel suo impatto ambientale, che ci sta a fare al confine con un parco naturale? Come possono convivere una centrale termoelettrica ed un parco naturale nello stesso territorio? In altre parole, non si dovrebbe operare, una volta per tutte, una scelta definitiva fra due realtà, che dal punto di vista ambientale, rappresentano gli estremi opposti?

Pubblicato da: alarossa | 13 Maggio 2009

p63

E’ il nome del gene indagato dai gruppi di ricerca del Dipartimento di Biotecnologie dell’Università di Padova, e di Scienze Biomediche dell’Università di Modena.
Lo studio, pubblicato su Cell, mette in luce come il gene p63 mutato determini, in una cellula tumorale, la comparsa di caratteristiche che sono alla base del processo di metastasi, come la tendenza a distaccarsi dalla massa primaria e ad invadere altri tessuti/organi o come la maggior resistenza ai trattamenti farmacologici.
Che lesioni a carico di geni onco-soppressori (p53) simili a p63, ed oncogeni (ras), fossero comuni a tumori con tendenza a dare metastasi, era noto da tempo. Molti gruppi di ricerca, compreso quello del Dipartimento di Biochimica dell’Università di Ferrara (dove ho lavorato come borsista AIRC fra il ’93 ed il ‘97), hanno dedicato notevoli energie ad indagare il meccanismo d’azione di molecole* con attività antitumorale leganti sequenze AT o CG reach tipiche di tali geni, impiegando tecniche (allora) innovative, fra le quali arrested PCR, arrested sequencing.
Ma la grande novità, e speranza, scaturita dalle ultime scoperte dei gruppi di Padova e Modena, sta nel fatto di poter individuare dei marker legati a p63 che consentano di rilevare, in stadi molto precoci della malattia, i casi di tumore con tendenza a dare metastasi, e quindi di adottare i protocolli terapeutici più appropriati.

Pubblicato da: alarossa | 13 Maggio 2009

Qualcosa di buono

Bufo_bufo_small[1]Qualcosa di buono arriva anche dalle spese militari: nel mese di marzo, il Pentagono ha annunciato che ricercatori del Worcester Polytechnic Institute, finanziati dalla divisione di ricerca del Pentagono, sono riusciti a far regredire le cellule epiteliali di cavie di laboratorio in una massa cellulare indifferenziata in grado di ri-differenziarsi in nuovi tessuti ed organi.
Si tratta, ovviamente, solo del primo step di una ricerca che dovrà essere trasferita dalle cavie all’uomo, e che tenta di replicare quanto avviene normalmente in natura, ad esempio in alcuni anfibi (salamandre), nelle quali, ammassi indifferenziati di cellule, dette blastemi (analoghi agli ammassi ottenuti dai ricercatori americani), possono ricostruire parti del corpo amputate.
L’obiettivo della ricerca americana (denominata Restorative Injury Repair) è quello di ricostruire o rimpiazzare tessuti muscolari e nervosi danneggiati od asportati, a seguito di ferite agli arti subite in combattimento dai soldati USA impegnati in Iraq ed Afghanistan. Ma non era più semplice non inviare soldati in Iraq ed Afghanistan?

Pubblicato da: alarossa | 13 Maggio 2009

Farmaci e ambiente

Da un articolo di A. Spina, assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Diritto dell’economia dell’Università di Siena, pubblicato sulla Rivista Giuridica dell’Ambiente – 1/2009, apprendo che, con proposta di direttiva COM(2008)663, la Commissione Europea intende includere, tra le informazioni che i titolari delle autorizzazioni all’immissione in commercio di farmaci sono tenuti a fornire al pubblico, anche le informazioni sull’impatto ambientale derivante dall’utilizzo dei medicinali.
Ciò rappresenta una novità importante per il diritto comunitario che disciplina le procedure autorizzative all’immissione in commercio dei medicinali (AIC), procedure nelle quali gli effetti ambientali derivanti dall’utilizzo di farmaci hanno avuto, fino ad oggi, un ruolo abbastanza marginale.
Nonostante, infatti, sia da tempo nota la diffusione di sostanze farmaceutiche, come contaminanti ambientali (soprattutto nelle acque superficiali e nel suolo) è soltanto con la direttiva europea 27 del 2004 che è riconosciuto il giusto peso agli effetti ambientali derivanti dall’utilizzo di prodotti farmaceutici. Con tale direttiva è introdotto l’obbligo per il richiedente l’autorizzazione, di allegare alla richiesta di AIC la valutazione dei rischi che il medicinale potrebbe comportare per l’ambiente, nonché di studiarne l’impatto e di prevedere disposizioni specifiche per limitarlo.
La proposta COM(2008)663 va quindi nella giusta direzione, perché prevedendo l’informazione del pubblico, dà la possibilità ai consumatori di scegliere farmaci che, a parità di efficacia terapeutica, abbiano minor impatto sull’ambiente.
L’autore dell’articolo, si augura che risposte alle richieste di maggior sicurezza ambientale dei prodotti farmaceutici, possano derivare, se non dalla legislazione farmaceutica, da altre norme europee, come ad esempio la direttiva 2000/60, che potrebbe includere le sostanze medicinali nella lista dei contaminanti ambientali.

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